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Karadzic. Dalla tragedia alla commedia
 

Pura e stretta cronaca, ad evitare l'apparentenza della fantapolitica. Ho visitato l'osteria preferita da Radovan Karadzic latitante. Cliente abituale mi hanno raccontato, e da tempo. Musica popolare serba dal vivo e, alle pareti, tante fotografie del passato, a partire da quella di Tito. Ritratti mischiati tra loro con dubbia coerenza politica: le foto dello scomparso Milosevic e, sopra il banco di mescita, l'immagine di un Radovan Karadzic nel suo piglio ufficiale di leader politico della Serbo-Bosnia. Accanto, quella del generale Mladic. Fossimo in Italia, paese superstizioso, i tifosi di Mladic ancora latitante avrebbero già imposto di separare le fotografie per distinguere il futuro dei protagonisti. Per clienti a camerieri il Karadzic arrestato era soltanto il dottor Dragan Dabic, figura in bilico tra la medicina alternativa e le filosofie del santone orientale. Trasformazione adeguata di abbigliamento, barbone candido in grado d'ingannare anche i suoi parenti stretti, e codino tinto di nero alla sommità del capo. Siamo alla periferia di Novi Beograd, vicino all'aeroporto militare di Batajnica. A questo punto la fantasia vola nello spazio, con l'abitazione clandestina di Karadzic al 267 di Via Juri Gagarin. Racconto surreale, ma non finisce qui.

Il super ricercato dalle polizie e servizi segreti di mezzo mondo che compare in molte televisioni locali a proporre la sua medicina alternativa. Editorialista apprezzato della rivista "Vita sana". Un suo sito internet ampliamente pubblicizzato dove Dabic-Karadzic ridisegna il suo passato. Si fa nascere nel villaggio di Kovaci, vicino Kraljevo (invece del suo Montenegro), si fa migrante all'estero, con una laurea in medicina, psichiatria, presa a Mosca (invece che a Sarajevo). Poi, a costruire la copertura del guru alternativo, si racconta in India, Giappone e Cina. Ammette l'esistenza di una vecchia famiglia da cui vive separato, e trasforma la "Sarajevo serba" di Pale, dove vivono moglie e figlia, nella lontana America. Si sussurra anche di una nuova compagna, Mila, a consolarlo negli affetti. La piacevole cinquantenne che gli compare accanto in alcune fotografie smentisce categoricamente sostenendo di avere condiviso con lui, dottor Dragan David Dabic, soltanto la passione esoterica. La tragedia che si trasforma in commedia.

Via via che crescono i particolari della singolare latitanza, aumenta lo stupore nell'opinione pubblica non solo serba e le difficoltà per la politica locale. Quesiti per ora soltanto sussurrati. Evaporata la favola del risultato di una brillante azione investigativa, tutti a interrogarsi sulla spiata che ha venduto Karadzic. Chi, come, quando, perché. L'ABC della notizia. Perché questo arresto proprio in questa fase politica interna e internazionale? Chi ne ha coperto prima la latitanza e chi poi l'ha venduto? è la domanda chiave. Probabilmente la stessa parte politica o istituzionale coinvolta nel "prima" e nel "dopo", insinua qualche malizioso amico serbo, con un non troppo velato riferimento alla nuova leadership del partito socialista che fu di Slobodan Milosevic. L'ago della bilancia, la forza decisiva all'interno del nuovo governo serbo messo assieme dal presidente Boris Tadic. "Filo europeista" nei programmi ambiziosi ma striminzito nei numeri parlamentari.

Trascorso il momento degli applausi di mezzo mondo per quella cattura, il fragile governo serbo (due soli seggi di maggioranza) scopre infatti che le strade della politica internazionale assomigliano a quelle dell'inferno, lastricate di buone intenzioni e di facili promesse. Nessuna garanzia di rapido avvio della trattativa di accesso all'Europa. Karadzic, già dicono da Bruxelles, non basta. Dovrà prima finire in galera anche il generale Ratko Mladic, e subito dopo l'ex leader della Krajna serba, gli ultimi due latitanti. Esami infiniti per la Serbia , con la tensione interna più portata a crescere che a creare un ampliamento di consensi attorno al governo. Secondo quesito che corre ora sulla bocca di molti. Perché l'arresto ora, quando sarebbero bastati altri sei mesi per sottrarre Karadzic al giudizio del tribunale Internazionale dell'Aja prossimo alla scadenza del suo mandato? Perché nessuno a Belgrado ed in Serbia potrebbe sostenere in casa le tensioni di un processo di questo genere, è la risposta non espressa che viene dai palazzi governativi. Nessuno ne avrebbe la forza oggi, nei confronti del montenegrino di Bosnia Karadzic, nessuno potrebbe soltanto immaginarlo domani per il serbo Ratko Mladic, militare di carriera.

Per tornare dalla commedia del santone-guru-guaritore, alla tragedia che fu la Bosnia , possono diventare utili alcune memorie personali d'allora. Per qualsiasi giornalista che abbia vissuto il macello Bosnia spostandosi, come facevo io, tra una parte e l'altra del fronte di guerra, tra gli assediati di Sarajevo e i loro assedianti sulle montagne, Radovan Karadzic era l'interlocutore ideale. Difficile da avvicinare, certo, ma arrivati alla sua vista con telecamera e microfono, era l'interlocutore ideale. "For the news, mister President", che tradotto nella lingua televisiva internazionale vuol dire, "stai corto". Bastava indicare il numero di minuti che avevi a disposizione e l'interlocutore, col cronometro in testa, recitava le sue ragioni e la sua propaganda per il taglio breve da telegiornale. Intervistato ideale insomma quel presunto assassino, con la precisazione che mai nessun assassino incontrato in tanti anni di mestiere, somiglia davvero ad un assassino. Non Radovan Karadzic, in particolare. I brutti ceffi, i cattivi a prima vista, li aveva attorno. Le "Bodyguard" cresciute sulle montagne tra Pale ed il Trebevic e, soprattutto, quell'arpia della figlia Sonja. Era lei ad avere il potere di accoglienza o di cacciata, per noi giornalisti.

Lui, Karadzic, con la sua capigliatura folta e sempre ordinata, qualche volta sorrideva persino. Con lui, confesso oggi, ho scambiato i gesti liturgici della pace. Erano le settimane della cattura dei caschi blu delle nazioni unite, esibiti incatenati sulle stradine di Pale e poi detenuti in luoghi inavvicinabili. Quella del Tg1 Rai era una delle poche troupes occidentali presenti. Tensione internazionale alle stelle, la sesta flotta Usa che si avvicinava all'Adriatico, tamburi di guerra che terrorizzavano il mondo e, noi narratori, reclusi a nostra volta nei confini stretti di quella sorta di villaggio alpino, modello svizzero, che era ed è Pale. La Sarajevo dell'assedio crudele ad una decina di chilometri, ed il resto del mondo lontano anni luce. Trovarsi al centro del bersaglio da cui sembra poter scaturire la terza guerra mondiale, ed avere a disposizione soltanto immagini agresti con prati verdi e chalet di montagna.

Ricordo di aver insistito con diversi "Stand Up", la parte del reportage televisivo in cui il giornalista si mostra, di fronte al solo cartello stradale con la scritta Sarajevo bucherellato di proiettili. La sola immagine guerresca che ero riuscito a trovare. Ricordo anche di un ordine di ritirata giunto da Roma. "Rientra subito, sta par partire l'attacco aereo americano. E' la guerra", fu l'ordine. "La sola che vola qui sono le mosche e i soli mezzi pesanti attorno sono le mucche", fu la mia risposta, con ordine puntualmente disatteso. Noi Rai eravamo stati i primi, ma stavano arrivando tutti gli altri, CNN compresa. Peter Arnet, pensate: il giornalista delle cronache marziane da Bagdad, le riprese notturne verdognole della prima guerra del Golfo. Chi era accampato al mitico "Hotel Olimpic", poco più di una modesta pensione a due stelle, chi preferiva l'ospitalità di famiglie bisognose di danaro. La caccia disperata al nulla televisivo, col rombo dei caccia bombardieri americani sull'Adriatico in contrasto con le bevute amicali che sapevo esserci tra detenuti Onu e detenenti serbi.

Silenzio stampa. Nessuna dichiarazione. Karadzic apparentemente scomparso. Caccia quotidiana ad immagini e notizie che non c'erano. La piazza del mercato, al centro del villaggio, deserta come sempre, con la sua chiesetta ortodossa poco frequentata. Un gruppo di auto di prestigio, tutt'attorno, attira l'attenzione. Le facce cattive di uomini armati ci danno la conferma. In chiesa Karadzic segue il rito per il santo che dovrebbe prendersi cura dei morti, mi pare di ricordare. Diffida immediata di Sonja Karadzic a porre domande al padre. All'uscita, ultima parte liturgica-popolare con la recita di un'invocazione. Karadzic che all'uscita saluta uno ad uno tutti i presenti, chiedendo per loro la protezione del santo, e l'interlocutore che ripete la formuletta rituale. Imparo a memoria, in serbo, e quando è il mio turno recito l'invocazione di pace e di bene e porgo il microfono. Karadzic, come alcuni politici italiani, non sa resistere alla tentazione di una telecamera e dichiara al mondo, attraverso la Rai , che i prigionieri stanno per essere liberati. I cacciabombardieri appontano sulle loro portaerei e il mondo tira un sospiro di sollievo.

Neppure un anno dopo, fine 1995 e dopo la tragedia di Srebrenica, Karadzic sarà il latitante numero uno, pari merito con suo generale Mladic. Vita, fuga, latitanza e cattura di Karadzic da affidare alla saggezza della storia, non potendo credere oggi alle piccole convenienze della politica o alle semplificazioni folkloristiche della cronaca sul santone. Più del finale del film latitanza-Kardzic, credo dovremmo rileggerne con più attenzione l'inizio. Chi davvero decise allora, 1995, e rese possibile, autorizzò e sostenne la sua fuga e la sua latitanza? Cosa fu deciso segretamente a Dayton e cosa avvenne realmente tra Washington, Belgrado e Pale? Parlassi un migliore inglese andrei a porre queste domande in America. Nel frattempo, più che alle reazioni della svogliata piazza nazionalista di Belgrado, guardo con più preoccupazioni alla Bosnia di Sarajevo. Le tentazioni di associare i nomi di Karadzic e Srbska Republika, accomunandoli nello stesso destino prossimo futuro, non si faranno attendere.

di Ennio Remondino - Megachip da il Manifesto

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