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Il Mio Romanzo - Di Mariangela Maccioni
 

Un nutrito coacervo di concomitanti circostanze giustifica il convincimento, per la verità non piacevole, che i nuoresi non abbiano saputo apprezzare adeguatamente il romanzo autobiografico scritto dalla loro (nostra) concittadina Mariangela Maccioni, pubblicato postumo nel 1995 per i tipi dell’editrice NEMAPRESS di Alghero col titolo Il mio romanzo.

Il libro in questione è, già di per sé, opera di pregio; sicché lo scarso apprezzamento (mi auguro sia soltanto supposto) potrebbe avere avuto origine o dal fatto che il racconto è rimasto incompiuto (per la morte dell’Autrice, avvenuta prematuramente nel 1958), ovvero dal fatto che, nella ricostruzione delle vicende selezionate ai fini della narrazione autobiografica, la città di Nuoro, patria della stessa Autrice, sia rimasta decisamente nell’ombra, non essendo assurta nemmeno al ridotto livello del deuteragonismo. Sia rimasta, cioè, in posizione appartata, tanto che neppure sembra fare da cornice alle su accennate vicende, quasi che queste ultime non appaiano ricollegabili a una specifica etnia, come se avessero avuto svolgimento in un luogo che neppure varrebbe la pena di denominare. Il che farebbe addirittura perdere interesse all’immedesimazione nel racconto, forse perché ai miei concittadini nuoresi - i quali oltretutto (a sentire i librai) non avrebbero mai dimostrato di essere accaniti lettori - ben poco sembrerebbe interessare la narrativa o la saggistica che non abbiano ad oggetto la cosiddetta nuoresità. Ricordo che una volta, conversando col l’amico scrittore Gianni Pititu, osservai (anche se quella volta solo per incidens) che un mio libro (nel quale m’ero cimentato elaborando un’originale tesi di filosofia estetica) non aveva avuto a Nuoro neppure un’ombra di successo, Il giudizio del Pititu fu a dir poco tranchant: “ai nuoresi interessano unicamente i libri che parlano di Nuoro. Gli altri non li leggono proprio”. Forse il giudizio fu eccessivamente drastico, o forse soltanto provocatorio. Ma resta il fatto che le vendite di libri (sempre a sentire i librai), rapportate al numero degli abitanti della città, sembrano proprio dimostrare una scarsa attitudine alla lettura della carta stampata. La quale è peraltro, incontestabilmente, un quid assolutamente diverso dalla fugace leggibilità della schermata on line.

Certo è, comunque, che se le ragioni dello scarso apprezzamento dell’opera della Maccioni sono quelle ch’io ho ipotizzato, vale certamente la pena di accennare, qui, alla loro palese inconsistenza.

* * *

Che un romanzo possa rimanere incompiuto, per la prematura morte dell’autore, è circostanza che non vale, di per sé, a escludere la positiva valutazione di quanto è stato scritto. Il capolavoro sattiano, Il giorno del giudizio, ne è la prova tangibile.

Coloro che conoscono le vicissitudini della vita di Mariangela Maccioni - condotta nella maturità anagrafica all’insegna del dichiarato antifascismo, in un periodo storico nel quale anche il semplice sospetto di antifascismo conduceva dritto dritto al carcere o al confino di polizia - potrebbero addurre (a giustificazione del loro disinteresse) il fatto che l’interruzione del racconto, al punto dell’avvenuto compimento dei fatti accaduti alla famiglia dell’Autrice nell’epoca immediatamente successiva alla prima guerra mondiale, abbia precluso la possibilità dell’esplicazione di un messaggio letterario ricollegabile appunto ai valori dell’antifascismo. Un messaggio letterario, cioè, parallelo a quello già espresso in versione saggistica dalla stessa Maccioni col libro Memorie politiche (edito nel 1988 a cura del marito della Maccioni, Raffaello Marchi, per i tipi dell’editrice Della Torre), reso ancora più esplicito negli scritti introduttivi dello stesso Marchi, opportunamente completati da Luisa Selis Delogu.

Vale, però, osservare in proposito che la valutazione dell’opera letteraria ha scarso significato se condotta sui binari della semplice supposizione di quanto lo scrittore avrebbe potuto dare se fosse sopravvissuto. Il racconto compendiato ne Il mio romanzo va, in verità, considerato per quello che è, non per quello che avrebbe ipoteticamente potuto essere; e ciò tenendo conto soprattutto del fatto che già, in esso, è condensato quanto è sufficiente per qualificarlo come opera di narrativa la quale trascende la semplice esposizione dei fatti, pur dimensionati secondo la loro rilevanza ai fini del percorso autobiografico. In realtà, da esso traspare un messaggio di chiarissimo significato, rapportabile alla dimensione di una vita umana votata all’interiorità, alla riflessione circa il valore etico degli affetti familiari, alla constatazione dell’ineluttabilità di un destino il quale fattualmente finisce per distruggere l’idillio familiare che pareva potesse durare indefinitamente. Messaggio, questo, che la scorrevolezza di un elegante linguaggio improntato opportunamente alla piacevolezza intellettuale rende percepibile a chi abbia teoretica facoltà di intendere e che, in ogni caso, è reso ben esplicito dalle pregevoli prefazione e postfazione, rispettivamente di Ignazio Delogu e Luisa Selis Delogu.




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casa Natale di Mariangela Maccioni, in Vicolo Barisone,
abitata dalla scrittrice fino agli anni Trenta del secolo
scorso, recentemente restaurata

La circostanza, poi, che nell’opera mancherebbe l’esaltazione della nuoresità, tanto cara ai nostri concittadini, è cosa letterariamente irrilevante, prima ancora che concretamente inesatta.

In verità, la dimensione microcosmica della Nuoro di allora, pur in fattuale declino nell’epoca in cui la Maccioni si accinse alla narrazione, ma tuttavia ancora percepibile a sprazzi, aleggia in una diffusa penombra ravvisabile in quella inesplicabile coscienza dell’appartenere, volenti o nolenti, a una misteriosa realtà di ardua e in ogni caso incerta definizione. Tanto ardua, quest’ultima, che non viene neppure tentata, nemmeno col facilitante ausilio dell’immagine letteraria.

E’, comunque, una dimensione pervasa di tristezza, di angoscia, di incertezze, di pianto. Un mondo infestato dal male e, perciò, dalla malinconia e dal dolore. La promessa di vita naufraga nel mare della delusione e del fatalismo. Domina su tutto un presentimento di morte; e la morte arriva inesorabile, presagita o ricercata. Solo il rifugio nella fede religiosa, talvolta simboleggiata da confortanti immagini floreali, potrebbe allontanare l’assillo di una dolorosa fine della vita terrena. Ma la fede non è un dono elargito a tutti. Non lo è in particolare per Giacinto, il quale comincia a perderla dopo la lettura del libro scritto dal professore Paoli, il suo insegnante di scienze (un Odifreddi ante litteram), pretenziosamente intitolato Fisiocosmos; uno zibaldone che si cimenta tra scienza e filosofia e che si prefigge di negare scientificamene la vita ultraterrena. E sarà proprio la perdita della fede, cominciata appunto con quella lettura, a indurre Giacinto a ricercare la morte.

* * *

Oggi l’opera della Maccioni, che peraltro non ebbe a suo tempo una cospicua tiratura, è del tutto introvabile nelle librerie (tanto da essere sfuggita, nel 1998, alla pur attenta Paola Pittalis, eminente studiosa della letteratura sarda); ed è un vero peccato, poiché si tratta di un’opera letteraria che dà lustro all’intera Sardegna e che a pieno titolo meriterebbe il culturale traghettamento (l’espressione è di Nicola Valle) oltre il Tirreno. La speranza, comunque, è che l’editrice Il Maestrale, benemerita in questo campo, provveda quanto prima alla ristampa.

Testo di: MARIO CORDA

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