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La legge
 
È sconfortante non riuscire a scrivere su un tema che, prima di mettersi davanti alla tastiera, si riteneva molto stimolante e di poter padroneggiare con facilità.
Non che lo abbia mai pensato facile o che fossi convinto di sapere tutto sull’argomento.
Ma, insomma, pensavo, la legge è, bene o male, anche in tempi normali, il pane quotidiano di un funzionario pubblico.
Tanto più dovrebbe trovare qualcosa da dire sull’argomento, in tempi come questi, quando non si fa che parlare di legge, addirittura di leggi illegittime, di legislatori fuori legge, di giudici che sovvertono le leggi, di governi che intenderebbero capovolgere l’intero ordinamento.
Invece, il problema è proprio che ci sono troppe cose da dire.
Vengono subito in mente troppe considerazioni legate alla attualità, al proprio modo di schierarsi nel momento contingente, per cui abbiamo la frustrante impressione che non serva a nessuno scaricare sulla carta per offrirle agli altri le idee confuse che rendono difficile la nostra stessa esistenza.
Con queste premesse, banali e pleonastiche, apparentemente, ma necessarie per salvarmi l’anima e per chiedere una assoluzione preventiva alle ciarle che seguiranno, e detto che mi terrò lontano il più possibile dai fatti contingenti, a me la questione sembra semplice: non esiste condizione umana senza legge.
È una banalità: non si dà esistenza senza legge, se usiamo il concetto di legge nella sua accezione più ampia, visto che abbiamo scoperto leggi nell’universo intero, in ogni sua parte, dall’atomo alle nebulose. Ma è una banalità che non va scordata: la legge è la condizione dell’esistenza.
Evidentemente per un minerale la legge che gli consente di esistere è, forse, semplicissima, nel senso che la si può esprimere con una formula breve, limitandosi a registrare i limiti di pressione entro i quali non sarà frantumata, mentre si complica sempre più quando più si complicano le condizioni dell’esistenza, come per le specie animali, dalle più elementari alle più complesse, fino all’uomo. E anche per l’uomo credo valga la banalità detta prima: la legge è la condizione della sua esistenza. L’uomo si estinguerebbe se non rispettasse la sua legge, o il complesso di leggi naturali che sono le condizioni della sua esistenza, e la legge fondamentale della specie umana è quella che lega la sua esistenza alla sua appartenenza a un gruppo articolato. Dal decalogo biblico alle grandi costruzioni normative moderne, lo schema è sempre lo stesso:
Io sono il signore dio tuo; noi siamo la tua famiglia; siamo la tua città; la tua patria ecc.
non parlerai mai male di noi; non ubbidirai ad altri che a noi.
All’interno della famiglia, rispetterai le usanze comuni; onorerai i genitori (i vecchi, i capi, i ricchi, i sacerdoti) non mentirai, non ruberai, non ucciderai, non commetterai niente di disonorevole, rispetterai le cose e gli affetti degli altri.
Non c’è gruppo umano che non rispetti queste norme. I motivi di ognuna sono evidenti.
La coesione è la forza del gruppo: richiede la fedeltà assoluta dei singoli e in cambio garantisce loro lo scorrere della esistenza nei limiti delle condizioni generali del gruppo. Chi non accetta la premessa viene espulso dal gruppo, ostracismo o scomunica, secondo i tempi e secondo i luoghi: nessuno potrà, se non a rischio di subire lo stesso destino, intrattenere con lui rapporti di solidarietà tribale, ospitarlo in casa, accettarne l’ospitalità, condividere la mensa, celebrare riti comuni. È la pena più severa che si possa infliggere a un consanguineo, terribile per tutti gli animali sociali, dai lupi a Socrate. Nel Critone, Platone pone in bocca a Socrate, condannato a morte e invitato a evitare la morte scambiandola con l’esilio, parole che tutti gli uomini leggono con commozione: l’esaltazione della legge, identificata con la città, e l’affermazione decisa che l’individuo non vive fuori della propria città e della propria legge. Da notare, nel caso di Socrate ma vale per tutti i popoli antichi, o quasi, che la condanna a morte per i cittadini è vista come una misura eccezionale, traumatica per l’intera comunità, perché viola il divieto di uccidere, che è una norma inderogabile all’interno del gruppo, una parte fondante che lega i gruppi familiari al gruppo.
All’interno del gruppo, gli individui sono fratelli.
È evidente, o, perlomeno, a me pare evidente, che queste norme fondanti non sono che l’estensione a una tribù composta di più parentadi delle norme che regolavano in tempi più antichi i gruppi monoparentali, formati da più sorelle con i loro mariti. Lo sviluppo culturale, l’aumento delle capacità di alimentazione, dovuto alla crescita di metodi o condizioni di produzione favorevoli, portano alla coesione di gruppi sempre più vasti, legati tra loro da parentele sempre più lontane, che richiedono nuove condizioni di adesione e di riconoscimento reciproco. La parentela antica non ha ovviamente bisogno di analisi del sangue, di mappe cromosomiche, di comparazioni di Dna. L’uomo primitivo riconosceva parente ogni individuo allevato all’interno del gruppo, di cui qualcuno si dichiarava padre o madre, che riconosceva gli stessi dei, celebrava gli stessi riti, seguiva le stesse leggi.
Ogni comunità umana in espansione, in ogni epoca storica e in ogni luogo, ha esteso il riconoscimento della parentela a tutti i gruppi familiari viventi entro i confini territoriali entro il quale esercitava il proprio dominio, con eccezioni più apparenti che reali, o, perlomeno, se si guarda la storia umana nelle sue grandi linee, non si può non vedere che ogni civiltà e ogni cultura umana, crescendo amplia i confini della sua appartenenza fino a comprendervi individui, gruppi, popoli che non solo ne erano fuori in origine, ma che, spesso, erano antagonisti, o nemici. Vale, evidentemente, per i grandi imperi, da quello cinese a quello romano, a quello arabo, agli imperi occidentali, spagnolo, austriaco, inglese. Per tutti. Dall’editto di Caracalla alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Con resistenze, con avanzate e ritirate, beninteso, ma la direttiva della marcia umana è quella. Senza questa costante, d’altronde, lo sviluppo dell’uomo non sarebbe stato possibile.
Si discetta, ho seguito da poco un programma televisivo sul tema, sulle origini del predominio dell’uomo sul mondo, se ne siano causa il suo sviluppo cerebrale, la conformazione della sua mano, la postura eretta o che. Io non posso davvero pronunciarmi su questo grande tema. Ho tante virtù. O me ne riconosco tante, ma so per certo di non essere uomo di scienza. Quello che mi sembra evidente è che l’uomo ha preso il sopravvento su ogni ambiente e ogni altro animale, grazie alla complessità e duttilità delle sue forme di aggregazione, e che queste si spiegano col linguaggio.
È il linguaggio che rende possibile codificare, conservare e trasmettere le esperienze. Col linguaggio l’esperienza individuale diventa collettiva e smette di essere contingente, trasmettendosi di gruppo in gruppo e di generazione in generazione. L’esperienza diventa storia comune, legge conosciuta e discussa, letteratura, filosofia, scienza. Quando poi l’uomo trova il modo per trasferirlo nella scrittura, le sue potenzialità diventano miracolose. In pochissimo tempo, da allora, poche migliaia di anni, l’uomo si impadronisce del mondo e si affaccia sul cielo. Grazie al fatto che di ogni cultura si è recuperato qualcosa e l’insieme è diventato una ricchezza inaudita, insperata, la specie umana può permettersi di curare quasi ogni malattia e di sfamare miliardi di individui. Per meglio dire, potrebbe curare quasi ogni malattia e sfamare ognuno dei miliardi di individui del pianeta.
Perché non lo fa? Secondo me, l’unica risposta possibile è che lo farà, perché lo deve fare, secondo la sua legge naturale. Tarda a farlo, perché ci sono resistenze enormi alla estensione dell’appartenenza, ma sono resistenze destinate a cedere. L’alternativa sarebbe un passo indietro, non verso il passato, non esiste una strada che porti al passato, ma verso un conflitto che potrebbe segnare la catastrofe per la specie umana, ma che non credo probabile, nonostante il momento attuale sia segnato da una sorta di guerra permanente. Una società che nega a una sua parte i diritti di appartenenza non può tenersi a lungo, con la attuale rapidità di comunicazioni, e il mondo tende sempre più rapidamente a riconoscersi come una unica società.
La fratellanza universale non è un’utopia, ma la condizione dell’esistenza umana, ed è ineludibile. Non parlo, evidentemente, di comunismo o di teoria economica. Non è questo il punto. Il punto è che l’uomo ha sempre potuto fare le guerre, ha sempre ucciso, sempre razziato, sempre mentito, sempre disprezzato gli dei, ma l’ha sempre fatto contro chi stava all’esterno della sua comunità, rimanendo convinto di rispettare la sua legge, che gli consentiva, se non gli imponeva, di rubare, profanare, uccidere, quelli all’esterno. Oggi è sempre più difficile non accorgersi che non rimangono più uomini all’esterno. Il fatto che gli odi tra i popoli sembrino acuirsi è legato al contingente più di quanto qualcuno vorrebbe far credere. La parte preponderante della cultura di tutti i popoli, gli uomini di scienza e di religione di tutti i popoli, credono sempre di più alla unicità della specie umana o, in altre parole, alla fratellanza universale. Sono pessimista per l’immediato futuro, anzi sono decisamente spaventato dal presente, ma ottimista per il futuro. Non credo che possa prevalere, nel tempo lungo, la parte becera della umanità, per quanto sia una minoranza ricca, rumorosa e pericolosa.
Mi sono tenuto largo, si dirà. Il tema era la legge di tutti i giorni. Le nostre leggi. Quelle che regolano la nostra vita quotidiana, non i destini dell’umanità.
La distanza è solo apparente, secondo me. Certe leggi che sono varate in questi giorni (dalla legge Bossi Fini sulla immigrazione alla cancellazione dei diritti del lavoro contenuta in vari provvedimenti, sono illegittime, a mio modo di vedere, e non hanno futuro. Una società avanzata non potrà tenerle a lungo. Bene o male, il razzismo è contrario alla legge umana, come la leggono ormai quasi tutti i teologi. Solo i folli ormai possono credere in un Dio personale, o familiare, in guerra con gli dei di altri popoli. E nessuno crede che sia moralmente accettabile la riduzione in schiavitù. Può capitare che un potente cerchi di fare licito il libito in sua legge, come in passato, e che vari leggi che rendono inapplicabili le altre, ma la società non potrà tenerle a lungo, pena la sua disgregazione. Un complesso di leggi che renda lecito il furto, la menzogna, il sopruso, la prepotenza, è creatura non umana.
Anche se nel mondo dei nostri giorni sembrerebbe prevalere l’opinione contraria e si comincia a dire chiaro che la legge naturale è quella del più forte, magari in termini più mitigati. Il popolo sovrano ha eletto i suoi rappresentanti, questi stanno facendo le leggi, forti di un mandato popolare certo e legittimamente espresso, le leggi sono necessariamente legittime. Così dice la maggioranza che ha vinto e la minoranza, che dovrebbe essere l’opposizione, sembra essere d’accordo.
Ma questa è proprio la legge, solo apparentemente naturale e semplicissima, del più forte. La maggioranza comanda e detta la legge. In questo modo di vedere la legge non sarebbe che la codificazione dell’interesse del più forte, sia che la forza sia data dalla prevalenza fisica o dallo strapotere e economico o dalla popolarità, o da tutte le cose insieme. Una legge dettata dalla stessa natura, dicono quelli che si sono convertiti di fresco al darwinismo, al darwinismo sociale.
Ma è una menzogna scriteriata, smentita dalla storia umana e dalla osservazione della natura. La natura, secondo Darwin, e ormai sono d’accordo con lui tutti o quasi, non seleziona i migliori, ma semplicemente i più adatti. In situazioni di difficoltà estreme, per esempio di drammatica penuria alimentare, non sopravvivono i più forti, come si sarebbe portati a credere, ma quelli che mangiano di meno, che sono generalmente più piccoli e più gracili, tanto che intere specie soccombono a seguito di un brusco cambiamento ambientale, se al loro interno non esistono individui, meno dotati in condizioni ottimali, capaci di sopravvivere in condizioni peggiorate. La fortuna dell’homo sapiens sarebbe inspiegabile senza la grande adattabilità della specie, che è data dalla varietà di caratteristiche individuali che è stata in grado di mettere in campo e dalla coesione di gruppo che ha saputo opporre allo strapotere fisico degli antagonisti. La specie umana non si è fatta annientare dai carnivori, perché era in grado di opporsi a loro con la mobilità e la strategia del gruppo, così come è stata in grado di soppiantare ogni altra specie in ogni ambiente per la stessa inferiorità fisica dei suoi individui. L’uomo sopravvive dappertutto, mangiando tutto, e ha avuto il sopravvento su ogni altra specie grazie alla sua organizzazione sociale. E alla legge che vietava a ogni uomo di insultare, depredare, uccidere ogni altro uomo.
NUMERO /4
Anno 2002, n. 4
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