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Cainà, l'immagine incontinente
 
Bisogna chiedersi - prima o poi - quanta Sardegna c’è nell’immagine che la storia del cinema ci ha restituito dell’isola.
È ancora quell’angolo misterioso dello spazio immaginario e immaginato impervio e selvatico dalla settima arte nella sua infanzia?
Non è ridotta piuttosto a sacca pulsante di misteri e tradizioni resistenti e tenuti stretti davanti ad una modernità che li ha già sedotti e contaminati internamente, cioè mummificati in un catalogo di film che mescolano esotico e ancestrale raschiando la trasparenza dell’acqua come i megaliti nuragici?
È una tematizzazione dell’identità che potrebbe rivelarsi utile per sciogliere i nodi gordiani che stringono e straziano un certo sardismo nostrano che usa l’intelligenza come il turista il pedalò. Il cinema non si è mai interessato troppo della Sardegna.
Quando lo ha fatto negli anni del muto si è aggrappato a quel tanto di letterario che rappresentava un mondo inesplorato e sconosciuto ai più.
Oggi le nuove tecnologie e i nuovi registi consentono ai sardi di guardarsi e rappresentarsi con facilità, anche se il troppo facile non ci salva dalla superficialità e ci espone al tarlo della faciloneria.
Guardando invece al passato si possono scoprire opere cinematografiche che restituiscono un’immagine “incontinente” della Sardegna, cioè non schiacciata sui cliché e carica di novità. È il caso di un film del 1921, “Cainà - L’isola e il continente” di Gennaro Righelli, scoperto nel 1992 in una cineteca di Praga.
Il film è stato recuperato, restaurato e restituito agli occhi di tutti. Protagonista di questo percorso è la Società Umanitaria - Cineteca Sarda, istituzione votata alla promozione della cultura audiovisiva e alla ricostruzione dell’immagine cinematografica della Sardegna. Il film è stato restaurato (con il contributo del CIS) e presentato per la prima volta in Sardegna con un impianto sonoro composto da Mauro Palmas nel 1995. Dopo 6 anni il film è stato riproposto il 26 giugno 2001 al teatro comunale di Cagliari in proiezione-concerto, con una colonna sonora perfezionata dallo stesso Palmas, una videocassetta che consente la massima diffusione del film e un volume (il quinto numero di Filmpraxis - Quaderni della Cineteca Sarda, edito dalla CUEC) che racconta la storia del recupero e del restauro, contestualizza storicamente e criticamente il film e ne regala una sceneggiatura desunta.
Nel triennio 1920/1922 furono realizzati 5 film di ambiente sardo: nel 1920 “Alba serena in un tramonto di sangue” di Mario Celada e “Marcella” di Carmine Gallone; nel 1921 “Il trionfo della vita” di Antonio Gravina e “Cainà” di Gennaro Righelli; nel 1922 “In terra sarda” di Romano Luigi Borgnetto.
L’interesse per la Sardegna è tutto esterno all’isola ed è sicuramente mosso da una serie di variabili complesse, tra le quali troviamo sicuramente le ispirazioni deleddiane (il mondo letterario costruito dalla scrittrice offre un immaginario di luoghi, tradizioni, costumi che sono materia prima per un mondo del cinema sempre alla ricerca di soggetti reali su cui immergere le formule melodrammatiche e avventurose che dominavano in quegli anni); gli itinerari dei grandi viaggiatori che mitizzano la selvatichezza ancestrale del paesaggio umano e naturale; un formalismo vagamente verista e naturalista di un cinema ancora lontano dai canoni del realismo.
“Cainà” è una storia che si inserisce in questo contesto magmatico, in cui dominano le volizioni e le ispirazioni contingenti del momento.
Ma è comunque un interesse del tutto estraneo a quello che oggi ci porta a valorizzare queste opere e a sperare di recuperarle. Oggi l’interesse nei confronti del mondo sardo parte direttamente da cineasti sardi.
Non è un interesse antropologico se non indirettamente: sembra infatti che ogni immagine girata in Sardegna “rischi” di diventare documento. Così ci appare ancora oggi questa immagine cinematografica (qualunque sia il suo supporto materiale), in un’epoca in cui la televisione documenta tutto e annichilisce lo sguardo e il cuore di chi divora queste immagini. Gianni Olla azzarda nel libro l’idea che il film di Righelli si collochi, in termini autoreferenziali, nel clima di stereotipi deleddiani. Ciò non toglie che Deledda sia passata, sia “passato”…
Lei è tuttavia oggetto di discussione rispetto a tutto ciò che con quel suo mondo narrativo costruisce riferimenti e relazioni, dirette e indirette. Però se guardiamo attentamente il film scopriamo che la “maniera” deleddiana, qui, in quest’opera, è contaminata da esigenze narrative tipiche del cinema e del tutto estranee ai suoi schemi narrativi.
Si osservi per esempio l’atteggiamento di Cainà nelle prime scene, quando avvista il veliero: lei è una donna sarda, tutta immersa nei nodi quotidiani delle lente giornate paesane, ma ispirata da un moto interiore tale che la spinge ad allargare le braccia in un gesto di apertura totale, tirando lo scialle in un movimento di rottura.
“Cainà” è in un certo senso un film grimaldello, che può essere letto in chiave metacinematografica come rapporto chiusura/apertura tra cinema della realtà e realtà del cinema.
Ci sono quindi elementi caratterizzanti di questo film che lo sottopongono a derivazioni moderne, anche se le regole del dramma vogliono e spingono verso la circolarità della crisi. Così il ritorno al proprio paese di Cainà è un ritorno che noi sappiamo impossibile: i passaggi della modernità - che sono i passaggi stessi della conoscenza, del sapere, dalla comunicazione - sono scanditi da un rosario di punti di non ritorno o senza ritorno. L’unica possibilità per il personaggio è quello di restare sospesa, senza identità.
Il cinema, la narrazione cinematografica di quegli anni, non è ancora in grado di accettare questa metafora dell’esistenza. Il film di Righelli è allora importante perché ricostruisce una rete dinamica di trasformazioni che ha subito il rapporto tra i sardi e l’immagine che del loro mondo restava impressionata nel cinema, nella letteratura, nelle altre arti, nelle altre discipline scientifiche (pensiamo per esempio all’immagine elaborata dalla criminologia lombrosiana).
In “Cainà” non vediamo soltanto il paesaggio com’era in quegli anni: abbiamo invece bisogno di vedere cosa è successo nel frattempo di quell’immagine, come ci siamo trasformati mentre questa immagine subiva le mutazioni che la storia del cinema - una fra le tante storie che si possono scrivere - ci racconta. Poco importa allora che sia Maria Jacobini a ricoprire il ruolo di una sarda, perché la sua estraneità sembra colmare vuoti e letture altrimenti impossibili. Poco importa che sia Gennaro Righelli a raccontarci una storia, perché i momenti melodrammatici del film aprono il film ad un intreccio che rafforza la forte connotazione sarda della storia (e questo devo dire che è una forza molto poco deleddiana).
Poco importa ancora di vedere montati insieme il nuraghe Oes tra Torralba e Giave con il castello dei Malaspina a Osilo: la successione ci immerge dentro un senso della storia, una sensualità dell’immagine, che immerge la storia dentro la storia di ogni paese, di ogni casa, di ogni pietra, di ogni angolo di mare della nostra isola.
NUMERO /3
Anno 2001, n. 3
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